Fare arte per stare bene

L’arte quando è libera e autentica manifesta la sua vera forza

Danila Mancuso

Danila Mancuso

Non serve essere artisti per trarre beneficio dalla creazione artistica. Anzi, forse è proprio quando l’arte si libera dalle aspettative, dai giudizi e dal bisogno di approvazione che inizia a rivelare il suo volto più autentico e potente.

E’ arte quando ci si libera dalle aspettative, dai giudizi e dal bisogno di approvazione

Quello di uno spazio personale in cui accadono trasformazioni invisibili. La creazione, nella sua forma più semplice e spontanea, ci riconnette al mistero della presenza.
In questi spazi creativi, il tempo sembra piegarsi: non è più lineare, ma circolare, intimo, materico. Non creiamo per mostrare. Creiamo per ascoltare. Per ascoltarci.

Questi momenti non hanno lo scopo di produrre qualcosa di esteticamente “bello” o “giusto”. Anzi, spesso il vero significato è nascosto proprio nelle imperfezioni, negli scarabocchi, nei colori sbavati, nelle forme che non trovano subito un senso.

Pensiamo, ad esempio, agli scarabocchi controllati di Cy Twombly, quei vortici infantili che sembrano errori ma custodiscono in realtà una tensione poetica, un’eco arcaica di memoria e mito.

Cy Twombly – Untitled (New York City), 1968
Segni scarabocchiati, ripetuti come una scrittura dell’inconscio.

Come nel gesto spontaneo di Jean Dubuffet, che abbraccia il brutto e il grezzo, scegliendo di affondare le mani nell’informe e nel materico, anche il nostro atto creativo quotidiano può farsi ribellione silenziosa contro l’omologazione del bello codificato. Non si tratta di disegnare bene. Si tratta di essere presenti.

Jean Dubuffet – Corps de Dame – Château d’Étoupe, 1950
La materia cruda, il segno violento, il rifiuto della forma canonica

Perché ciò che accade tra le mani e il foglio è un dialogo muto tra il mondo che ci abita e quello che ancora non sappiamo di sentire. È un linguaggio che precede le parole, come nei quadri di Joan Miró, dove figure oniriche e segni primordiali si rincorrono senza logica apparente, eppure evocano mondi interiori limpidi e profondi.

Joan Miró – Blu, 1961
Figure sospese nel vuoto, fluttuanti come pensieri senza parola

In questo dialogo, ogni tratto, anche il più incerto, può essere rivelazione. Come accadeva a Paul Klee, che diceva: «L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è».

Paul Klee – Intorno al pesce, 1926
Simboli arcani, colori e linee che raccontano l’invisibile

È la stessa sospensione del giudizio che ritroviamo nei silenzi cromatici di Mark Rothko, dove lo spettatore non è chiamato a capire, ma a sentire. A lasciarsi attraversare. Così anche noi, nel nostro piccolo gesto creativo quotidiano, possiamo varcare quella soglia invisibile dove l’arte smette di essere “prodotto” e torna a essere rito, respiro, cura.

Mark Rothko – Orange and Yellow, 1956
Campi di colore come porte verso l’interiorità

Dare spazio alla creatività quotidianamente è come accendere una candela nella stanza dell’anima

Dare spazio alla creatività quotidianamente, anche solo per pochi minuti, è come accendere una candela nella stanza dell’anima. Ogni gesto, ogni forma, ogni macchia di colore è una porta che si apre verso l’interno.

L’arte, vissuta come rito personale, non è mai inutile. Non è mai “tempo perso”. È tempo che si restituisce. È ascolto, è libertà, è guarigione sottile.

In un’epoca che ci vuole sempre produttivi, misurabili, veloci, ritagliarsi uno spazio per creare senza scopo è un atto di coraggio e bellezza. Un atto che ci ricorda che siamo molto più di quello che facciamo.

Siamo anche ciò che disegniamo senza motivo. Ciò che sogniamo in silenzio. Ciò che sentiamo quando ci lasciamo essere.